di Pina Catalanotto
Puntuale come ogni anno arriva Eduscopio, la classifica, città per città, delle migliori scuole superiori d’Italia, un progetto della Fondazione Giovanni Agnelli, il cui obiettivo è quello di aiutare gli studenti e le loro famiglie nel momento della scelta della scuola dopo la terza media; il portale Eduscopio.it infatti, raccoglie i dati aggiornati sulle scuole secondarie di II grado (in circa 7.700 indirizzi di studio) che meglio preparano agli studi universitari o al lavoro dopo il diploma e per farlo analizza i risultati di un campione di diplomati/e, circa1.289.000 in quest’ultima indagine, monitorati in tre successivi anni scolastici.
Ma quali sono i parametri di successo considerati? Due indicatori in particolare, la media dei voti universitari e i crediti formativi ottenuti. Quindi, quanti esami e con che profitto. I due dati congiunti evitano di premiare chi supera molti esami ma con voti bassi, riducendo così il grado di preparazione, come chi prolunga la durata del corso di laurea pur di conseguire voti più alti, perché l’età è fondamentale per l’inserimento nel mondo del lavoro. Questo, naturalmente, per quanto riguarda i licei.
Cosa diversa per le scuole ad indirizzo tecnico, ma soprattutto professionale, dove, a fare la differenza, sarà la capacità di inserimento nel mondo del lavoro e la coerenza dell’occupazione con gli studi compiuti.
La tipologia degli indicatori riguarda sia gli aspetti qualitativi che quantitativi delle esperienze di lavoro de* diplomat*. Ad es. l’arco di tempo preso in considerazione, entro i primi due anni dal diploma, e, per chi non ha proseguito con gli studi universitari ma si è dedicat* esclusivamente alla ricerca di un’occupazione, la percentuale di coloro che hanno lavorato per almeno 6 mesi nei 2 anni post diploma. Ma anche la tipologia dei contratti, la coerenza con le qualifiche acquisite nel percorso scolastico, perfino la distanza da casa dell’occupazione; insomma, un lavoro di comparazione dati non indifferente elaborato dalla Fondazione Agnelli che da vari anni ha concentrato la sua attenzione proprio sui temi dell’educazione, studiandone “ le tre dimensioni fondamentali e non separabili: la sua equità, in termini di sostanziale diritto allo studio per tutti, la sua efficacia, in termini di qualità degli apprendimenti, e la sua efficienza, in termini di migliore impiego possibile delle risorse umane e finanziarie” come si legge sul sito.
Per quanto l’indagine sia comunque una fotografia accurata e sicuramente utile della situazione delle scuole italiane, è evidente però che presenta alcuni limiti molto evidenti. Primo fra tutti, uno di metodo: la comparazione tra scuole dello stesso tipo è una discriminante essenziale del progetto, proprio perché indirizzi diversi attraggono un’”utenza” (vocabolo ormai in uso nelle nostre scuole) diversa. Soprattutto riguardo alle scelte successive al diploma, universitarie nel caso dei licei, di proseguimento nel mondo del lavoro nel caso degli istituti tecnici o professionali. Lo spartiacque è ormai netto e si è consolidato in modo quasi irreversibile nel corso degli anni. Dobbiamo tornare indietro alla sperimentazione “Progetto ’92” avviatadal Ministero dell’allora Pubblica Istruzione, per trovare una riforma degli Istituti professionali in grado di consentirne un salto di qualità nel sistema formativo. Fu un grande sforzo, amministrativo e professionale, e un impegno da parte delle scuole non indifferente. L’aumento delle ore degli insegnamenti di area comune, indispensabili a garantire un bagaglio culturale di base equiparato al biennio degli altri istituti, insieme ad un efficace riordino di programmi, specializzazioni professionali e curricolo verticale, garantirono in quegli anni un successo formativo maggiore, un calo della dispersione e la possibilità per molti studenti di proseguire gli studi in ambito universitario.
Anche il settore liceale si muove in quegli anni nel segno delle sperimentazioni, introducendo indirizzi e materie di studio che rendono anche i licei classici più “appetibili” a studenti di estrazione sociale diversa, attratti dalla possibilità di approfondire campi e ambiti diversi (Lingue straniere, Diritto, Arte…) adatti a nuovi percorsi universitari.
I governi berlusconiani interrompono bruscamente questo processo. Le tre I, impresa, informatica, inglese della riforma Moratti sono solo un vuoto contenitore per giustificare tagli consistenti alle risorse e per nascondere il vero obiettivo, il passaggio della formazione tecnica e professionale alle Regioni, l’introduzione dell’alternanza scuola-lavoro a cui può accedere chi non è in grado di proseguire gli studi liceali. Di fatto la separazione definitiva del nostro sistema di istruzione e una selezione scolastica tra studenti “portati” per lo studio e studenti “orientati” verso la formazione professionale. Qualche anno dopo, nel 2009, la riforma Gelmini completerà il disegno mettendo in atto la più grande sottrazione di risorse finanziarie alla scuola italiana e il riordino del sistema liceale con l’abolizione di quasi tutte le sperimentazioni. Chi vuole proseguire gli studi deve munirsi di una adeguata preparazione, il liceo classico viene riportato agli antichi fasti, appannaggio di un’élite di studenti di solida estrazione sociale, seguito dai licei scientifici e da altri licei – satelliti, mentre gli istituti tecnici e professionali scendono, inesorabilmente, in basso nella scala sociale dell’istruzione italiana. La scelta della Fondazione Agnelli di valutare parametri assai diversi appare dunque scontata alla luce della definitiva divisione tra i due tronchi dell’istruzione italiana.
Il discorso si fa più chiaro quando entriamo nel merito della questione: se i parametri su cui valutare i migliori licei sono i crediti formativi, siamo sicuri che tali criteri dipendano principalmente dalla scuola di provenienza? Se io studente ho la possibilità di seguire con regolarità le lezioni universitarie, perfezionare la mia preparazione seguendo percorsi formativi o periodi di studio all’estero, studiare in un ambiente comodo, non preoccuparmi per l’affitto della casa o l’acquisto dei libri, insomma, per dirla banalmente, se ho una famiglia alle spalle in grado di sostenere i costi universitari sempre più proibitivi per la maggior parte delle famiglie medie italiane e dunque tanto tempo da dedicare allo studio, ho maggiori probabilità di ottenere i crediti formativi sin dall’inizio del percorso universitario? Domanda retorica si risponderà, ma quanti e quali fattori condizionano la bontà di una scuola e la sua ricaduta sul territorio? Il tessuto sociale delle famiglie più o meno benestanti e dunque la possibilità di avere a disposizione maggiori strumenti può essere considerato uno dei principali fattori? Ed è puramente casuale che nella mia città, Palermo, i migliori licei siano frequentati da studenti provenienti da famiglie più che benestanti in grado di garantire un proseguimento degli studi nelle migliori università anche lontane da casa? Domanda retorica anche questa, ma certo, pur senza alcun giudizio di merito sulla bontà delle scuole prese in esame e sulla bravura indiscutibile di chi vi insegna, mi pare che la funzione della classifica di Eduscopio sia paragonabile più che ad una scelta, ad un’operazione di shopping, mentre la realtà è ben altra cosa rispetto alla vetrina sulle scuole italiane che ci propone.
Il crollo delle immatricolazioni universitarie è ormai un dato costante, come emerge dal monitoraggio del Ministero dell’Università dove ne risultano 16.728 in meno negli ultimi due anni.
L’ascensore sociale è bloccato ormai da anni e le disuguaglianze di partenza vengono amplificate dal contesto da cui provengono gli alunni, soprattutto nel proseguimento degli studi superiori dove i licei vengono frequentati normalmente da figli/e di genitori laureati. Gli stessi in grado di consentire loro il proseguimento universitario, mantenendone invariata la condizione sociale o, in molti casi, migliorandola. Per la restante platea, al netto della dispersione scolastica in risalita, le prospettive saranno quelle di concludere un percorso formativo che, nel migliore dei casi, li manterrà nelle stesse condizioni economiche e di benessere dei loro genitori.
Nonostante questo desolante quadro, la disuguaglianza sociale non è menzionata nè inserita fra i tanti parametri ed indicatori dell’indagine Eduscopio. E questo rende la fotografia, se non falsa, quantomeno ritoccata.
O forse a questo divario la nostra scuola si è arresa, con buona pace di ogni discorso sul diritto allo studio e sul merito.