Gli ingredienti delle scuole felici
Un libro di Marianella Sclavi e Gabriella Giornello
Tutti vorremmo una scuola felice, dove le persone si incontrano, lavorano e studiano volentieri e in modo fruttuoso. Purtroppo siamo ancora tanto lontani…
Andiamo a cercare in questo libro, che ha quasi 10 anni, ma che resta molto attuale qualche ingrediente per iniettare nella scuola e nei nostri studenti un po’ di felicità.
Il filo conduttore del libro è il racconto gentile ed ironico dei tanti incontri di Gabriella con e fra gli studenti delle scuole superiori, incontri dai quali deriva una nuova prospettiva su stessa e sul suo ruolo di docente. Ascoltiamola direttamente dalle sue parole: “Rispetto alle mie ipotesi iniziali, gli studenti hanno dimostrato di avere idee diverse nei confronti della scuola: lo starci “bene” o “male” dipende molto dalle relazioni che s’instaurano con compagni e professori, importanti fino al punto di oscurare il profitto scolastico vero e proprio”… sorprendente anche “il giudizio che danno dei propri risultati scolastici, così legato alle emozioni e così poco dipendente da quelle che noi insegnanti consideriamo le “reali valutazioni” ottenute”. Insomma “ammettiamolo: noi insegnanti siamo vanamente egocentrici quando, discutendo di scuola, ci riferiamo quasi esclusivamente alle materie scolastiche, ai compiti, alle interrogazioni e a tutto quanto è connesso ai ruoli ufficiali assegnati dalla istituzione. Di nuovo ho la conferma che loro, gli studenti, quando pensano alla scuola hanno in mente prima di tutto le relazioni personali, soprattutto quelle con i compagni. Hanno un acuto bisogno di riflettere sulle gioie e le sofferenze, sulle prove e sulle sfide di maturità sociale e umana connesse alla convivenza fra pari e al formarsi, in questo contesto, delle loro identità. Su tutto questo la scuola fa qualcosa di più grave del semplice tacere: si dimostra incapace”
Gabriella non è “una di loro” e neanche “amica”. E’ consapevole di essere distante dagli studenti per età, idee ed esperienze. Si approccia, piuttosto, con la prospettiva dell’antropologa, consapevole di quanto sia importante osservare” e al tempo stesso cosciente del rischio di voler far prevalere il proprio punto di vista. Mette quindi in pratica i principi base dell’osservazione partecipante: quello sguardo allenato a cogliere la possibilità di mettere a proprio agio l’altro perché ci parli, saper cogliere da quello che ci dice le sfumature per rilanciare comunicazione, ascolto, parola, capacità di iniziativa. Un continuo sottrarsi come protagonista, per fare sì che lo diventi l’altro.
Ma cosa fa Gabriella nelle scuole? Perché incontra tanti giovani, e tra questi quelli più difficili? Ex insegnante di lettere, opera nelle scuole come mediatrice e insegnante di mediazione creativa dei conflitti, chiamata da presidi e colleghe a occuparsi dei casi più intrattabili e ingovernabili.
E ricordiamo, il conflitto, nella scuola riguarda un pò tutti, non solo i casi più difficili, i comportamenti violenti, devianti o di palese rifiuto. Riguarda anche il ragazzino silenzioso o quello che si adegua, per quieto vivere.
La ricetta, per tutti nella scuola, giovani e meno giovani è quella dell’ascolto attivo, così ben descritto da Gordon. Gabriella e Marianella ci ricordano in questo libro, che l’atteggiamento giusto è molto controintuitivo e diametralmente opposto all’immagine che tradizionalmente associamo al buon osservatore: impassibile, “neutrale”, sicuro di sé, razionale e avulso da qualsiasi emozione. Al contrario, “se vogliamo entrare nella giusta ottica, dobbiamo imparare qualcosa di nuovo e sorprendente, che ci “spiazza” dalle nostre certezze e dunque che ci consente di dialogare. Questo significa che dobbiamo essere disponibili a sentirci “goffi”, a riconoscere che facciamo fatica a comprendere ciò che l’altro ci sta dicendo: in questo modo stabiliamo rapporti di riconoscimento, rispetto e apprendimento reciproco che sono la condizione per affrontare congiuntamente e creativamente il problema. È la rinuncia all’arroganza dell’uomo-che-sa e l’accettazione della vulnerabilità, ma anche l’allegria, della persona-che-impara, che cresce, che cambia con gli altri invece che contro gli altri”.
Mettersi in gioco, con autoiroinia e consapevolezza emozionale, sembra essere dunque la ricetta “giusta” per quei docenti che vogliano rendere la scuola più inclusiva e trasformare così le diversità in risorse; abitare luoghi “felici”, dove è “normale” considerare la molteplicità dei punti di vista come “occasione per costruire soluzioni creative di mutuo gradimento, invece che come occasione per costruire schieramenti ostili e contrapposti”
Tra gli strumenti di una pedagogia inclusiva non possono quindi mancare le sette regole dell’arte di ascoltar che Marianella Sclavi ha così ben delineato in un altro testo fondamentale: ”Arte di ascoltare e mondi possibili”
- Non avere fretta di arrivare a delle conclusioni. Le conclusioni sono la parte più effimera della ricerca.
- Quel che vedi dipende dalla prospettiva in cui ti trovi. Per riuscire a vedere la tua prospettiva, devi cambiare prospettiva.
- Se vuoi comprendere quel che un altro sta dicendo, devi assumere che ha ragione e chiedergli di aiutarti a capire come e perché.
- Le emozioni sono degli strumenti conoscitivi fondamentali se sai comprendere il loro linguaggio. Non ti informano su cosa vedi, ma su come guardi. Il loro codice è relazionale e analogico.
- Un buon ascoltatore è un esploratore di mondi possibili. I segnali più importanti per lui sono quelli che si presentano alla coscienza come al tempo stesso trascurabili e fastidiosi, marginali e irritanti perché incongruenti con le proprie certezze.
- Un buon ascoltatore accoglie volentieri i paradossi del pensiero e della comunicazione.
Affronta i dissensi come occasioni per esercitarsi in un campo che lo appassiona: la gestione creativa dei conflitti. - Per divenire esperto nell’arte di ascoltare devi adottare una metodologia umoristica.
Ma quando hai imparato ad ascoltare, l’umorismo viene da sé.